“Di che specie è questa vocazione così italiana – nel saliscendi dai grandi ai piccoli classici del nostro più intimo e amato Novecento, irradiata da una letteratura e da una pittura mansueta, implacabilmente opposte alle disfatte del secolo – che riconosci subito, a colpo d’occhio, ancora nei dipinti di Tito Rossini tutto un protendersi e un rifugiarsi a capofitto in una domesticità incorrotta, consacrata e sorvegliata da una mitezza di bricchi, brocche, piume, piatti, tavoli, letti, tetti, balconi, lampioni, lenzuola, porte, soglie, spiagge, finestre, stelle… Archi? Di pietra e di luce. Magari ponendo ogni immagine sotto quel raggio di compassione che ancora rischiara e singolarmente intreccia tra loro i nomi di Pascoli, Pasolini, Morandi… Questa permanente nostalgia senza cicatrici, questa sorta di rimpianto privo di dolore, per Rossini – anche per la sua segreta tensione autobiografica, per questi suoi racconti sospesi, interrotti, per queste sue ineffabili cronache familiari – fa di tutta la realtà una natura morta, e proprio per questo mai più morta, ma stranamente vivente, irradiante luce propria, indifferente. Qui nulla cade. E se tutto appare quasi troppo puro per l’uomo, per questo ingombro, per questa eccedenza malata, ugualmente queste scene silenziose e vuote ne sono una diretta emanazione, ne proiettano un sogno di perfezione, di isolamento, di durevolezza.
Afferrati dalla fedeltà a ciò che si vede e nel medesimo tempo dal desiderio dì fuggirne “un indice teso al cielo, l’altro alla terra” – questi quadri è come se esigessero ogni volta un modo di operare vincolante in cui sia chiusa, muta ed esemplare, non so quale trascendenza. È evidente infatti come la delicata e intensa fisicità che da letteralmente corpo al mondo di Rossini, a questa sua limpida vocazione di costruttore, echeggi un che di spirituale procedendo sempre da un’idea totalizzante delle immagini, rendendoci, per così dire, contemporanei dell’immemoriale.”
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